SPECIALE AIMAT 2023

«Basta parlare solo di fine vita, il futuro sono i materiali bio»

Intervista a Francesco Paolo La Mantia, professore emerito e docente di tecnologia dei polimeri

Portale Compositi ha realizzato una serie di interviste ad alcuni dei protagonisti del convegno nazionale dell'AIMAT - l'Associazione Italiana di Ingegneria dei Materiali - a Catania, nelle sale delll'Hotel Plaza, dal 28 maggio al 1^ giugno. La prima è quella a Francesco Paolo La Mantia, professore emerito e docente di tecnologia dei polimeri. 

di NICOLA CATENARO

Professor La Mantia, si deve parlare non solo di fine vita, ma anche di inizio vita dei polimeri, è giusto?
«Sì, esattamente, e non si può fare diversamente se si vuol parlare di economia circolare e di circolarità delle materie plastiche. Quando un polimero arriva a fine vita, non solo per motivi ambientali ma anche economici, bisogna recuperare il suo contenuto di materia e di energia. Quindi, serve innanzitutto che questi materiali vengano riciclati attraverso un procedimento chimico o meccanico o al limite energetico. Ma questo discorso si ricollega all’inizio vita perché, se i polimeri provengono da materiale fossile, il che significa petrolio per quanto riguarda i polimeri, e se il fine di vita di questi materiali è ad esempio la combustione, immettono nell’ambiente dell’anidride carbonica che è antropogenica e peggiorano il bilancio della CO2 nell’aria».

Dunque, cosa bisogna fare?
«Bisogna sfruttare il più possibile il polimero fin quando è possibile farlo, attraverso il riciclo meccanico o chimico. Per diminuire invece la quantità di CO2 che va in aria, bisogna ritornare all’inizio vita e cercare di produrre i polimeri non più attraverso fonti fossili ma fonti rinnovabili. In effetti, se guardiamo il polimero non solo come un oggetto che dà fastidio al fine vita ma come un oggetto che ha prodotto CO2 che va nell’aria, è necessario che questa CO2 provenga da fonti rinnovabili perché poi sarà di nuovo riusata per riprodurre, attraverso la fotosintesi clorofilliana, quelle biomasse necessarie a produrre il polimero vergine».

Mi fa un esempio concreto partendo da un materiale?
«Se io faccio del polietilene dal petrolio, per fare una tonnellata di polietilene disperdo nell’aria circa due tonnellate di CO2. È naturalmente la sommatoria della CO2, da quando si va a scavare il petrolio fino a quando produco l’oggetto, cioè stiamo parlando dell’intera life cycle analysis energetica del polimero. Se io invece faccio quel polietilene da una fonte rinnovabile, la CO2 che immetto nell’aria equivale a – 1 perché la fonte rinnovabile servita a fare quella bioplastica ha mangiato CO2 dall’ambiente. Se lo stesso polietilene lo faccio da petrolio ma poi lo riciclo, quel polimero riciclato non emetterà più due tonnellate di CO2 perché salta tutta la fase di petrolio iniziale e di polimerizzazione, ne emetterà soltanto 0,5. Questo significa che stiamo diminuendo enormemente la quantità di CO2 che il mondo delle materie plastiche immette nell’ambiente. Ecco perché io parlo di inizio e fine vita: se la CO2 nasce dall’inizio vita, la ritroverò alla fine; se invece evito di farla nascere dall’inizio vita, non succederà. Questo è il paradigma su cui ci stiamo muovendo».

Il ragionamento che ha fatto, su scala, a cosa porta?
«Le cito un numero. Nel mondo vengono immesse sul mercato quasi 400 milioni di tonnellate di materie plastiche. Siccome sono quasi tutte fatte da petrolio, immettono nell’ambiente circa un miliardo di tonnellate di CO2, il che equivale a circa al 2,5 % di tutta la CO2 immessa nell’ambiente. Quindi, essenzialmente, riciclare di più, consumare un po’ di meno e aumentare la quantità di polimeri provenienti da fonte rinnovabile, significa che potremmo risparmiare quasi un miliardo di tonnellate di CO2 all’anno nell’ambiente. Come a dire, non risolveremmo il problema della CO2, stiamo attenti, ma io credo che ogni pezzo del mondo industriale e del mondo in generale debba dare il proprio contributo alla soluzione di quello che sta diventando un problema serio e attuale».

I polimeri, in questa nuova ottica, saranno i materiali del futuro?
«I polimeri sono già i materiali del futuro perché hanno tante di quelle caratteristiche che è difficile rinunciarci. D’altro canto, se in una trentina d’anni si è passati da 100 milioni a 400 milioni, qualcosa significa. Io dico che, invece di continuare ad essere un problema, come oggi vengono visti, potrebbero diventare uno dei tasselli della soluzione del problema della CO2 nell’ambiente».

Per quanto riguarda i compositi e le applicazioni nella mobilità sostenibile, cosa vede nel futuro?
«Da quello che leggo analizzando i numeri che mi forniscono le aziende, uno dei settori che sta crescendo di più nelle applicazioni di polimeri biodegradabili e di biocompositi in generale, è proprio l’automotive. Parlo ad esempio di canapa ma anche banalmente di farina di legno. L’automotive sta diventando uno dei target dei polimeri biodegradabili. Se ne parla anche nell’aerospazio, ma siamo ancora a livello di discorsi e non di applicazioni pratiche. Il problema dei polimeri biodegradabili e provenienti da fonte rinnovabile è che coprono la fascia bassa delle caratteristiche dei polimeri. Da questo punto di vista, i biocompositi, sia termoplastici sia termoindurenti, offrono un piccolo plus in più, se non altro un po’ di rigidità che oggi i polimeri biodegradabili, che sono poliesteri, oggi non hanno».

CHI È

Francesco Paolo La Mantia è professore emerito dell’Università di Palermo e insegna Tecnologia dei Polimeri e Riciclo di Materie Plastiche. La sua attività scientifica è stata concentrata sulla reologia e la lavorabilità di sistemi polimerici. Miscele polimeriche, nanocompositi, polimeri biodegradabili e riciclo di materie plastiche. È autore di circa 400 articoli su riviste scientifiche internazionali ed oltre 300 presentazioni a convegni nazionali ed internazionali ed invitato a presentare plenary lectures in diversi convegni.
Ha ricoperto molte cariche istituzionali ed è stato presidente di associazioni scientifiche nazionali ed internazionali.

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